LA PROGRAMMAZIONE EPIGENETICA EMBRIOFETALE DELLE MALATTIE COMPLESSE

LA PROGRAMMAZIONE EPIGENETICA EMBRIOFETALE DELLE MALATTIE COMPLESSE

Con il termine “malattie complesse” ci si riferisce a tutte quelle patologie che sono geneticamente determinate, ma che non vengono ereditate secondo i meccanismi mendeliani, ovvero, non presentano le relative proprietà di segregazione, dominanza o recessività, eterozigosi o omozigosi; sono malattie poligeniche, in quanto controllate da due o più coppie di geni, ma accanto ai fattori genetici predisponenti rivestono un ruolo molto importante nell’eziopatogenesi anche i fattori ambientali, che contribuiscono, ognuno indipendentemente dall’altro, alla costituzione del fenotipo;  ne consegue che le malattie complesse (o multifattoriali) sono distribuite in modo continuo nella popolazione (Cummings, 2009).
Da diversi anni la ricerca ha iniziato ad individuare il ruolo della modulazione epigenetica nell’eziopatogenesi delle malattie complesse, individuandone i meccanismi molecolari sottostanti.

In questo capitolo ne tratterò alcune, con particolare riferimento a quelle per le quali è stata dimostrata una programmazione epigenetica embriofetale.

 


Malattie organiche

Aterosclerosi

L’aterosclerosi è un indurimento tissutale, o sclerosi, della parete interna delle arterie, l’endotelio, come conseguenza dell’accumulo di tessuto connettivo fibroso a scapito della componente elastica causato dalla formazione di placche ateromatose.
Torrens e collaboratori hanno dimostrato nei ratti l’associazione tra carenze nutrizionali materne in gravidanza e disfunzioni dell’endotelio nella prole (Torrens et al., 2009).
Le prime evidenze di una possibile associazione tra la carenza di fattori nutrizionali donatori di metili (acido Folico e vitamina B12) e aterosclerosi furono pubblicate nel 1999
(Newman, 1999); successivamente fu pubblicato un articolo che descriveva l’osservazione in coltura dell’alterazione della metilazione del DNA su cellule trattate con elevate
concentrazioni di lipoproteine plasmatiche (Lund et al., 2004); in particolare, le ricerche che seguirono dimostrarono che nelle fasi avanzate del processo di degenerazione aterosclerotica
predomina l’ipometilazione del DNA e che il livello di omocisteina circolante è significativamente associato con la perdita di gruppi metile (Brattstrom e Wilcken, 2000; Zaina et al., 2005).

Questo processo coinvolge numerosi geni, alcuni dei quali vanno incontro anche a ipermetilazione; ad esempio, le sequenze CpG della Superossidodismutasi extracellulare nell’aorta aterosclerotica sono ipometilate (Laukkanen et al., 1999), mentre i geni dei recettori degli estrogeni negli ateromi sono ipermetilati (Ying et al., 2000). Da queste osservazioni
emerge che nell’aterosclerosi è presente un’alterazione della modulazione dei processi pro- o anti-infiammatori, normalmente espressi attraverso l’interazione con i recettori nucleari che
regolano il metabolismo dei lipidi, l’infiammazione e l’omeostasi vascolare; questa modulazione è frutto di un equilibrio tra attivazione e repressione dei geni co-repressori e co-attivatori della cromatina.Gli studi si stanno dirigendo verso la ricerca delle componenti della dieta in grado di modulare la marcatura epigenetica che altera la corretta programmazione dell’endotelio vascolare.

 


Sindrome metabolica, Diabete e Malattie cardiovascolari

Con il termine “Sindrome metabolica” ci si riferisce ad un insieme di alterazioni che riguardano il metabolismo glucidico (iperglicemia e diabete di tipo 2), il metabolismo lipidico
(alto livello dei trigliceridi e basso livello del colesterolo HDL), la pressione sanguigna (ipertensione arteriosa), associate ad un accumulo eccessivo di grasso viscerale e rappresenta
il fattore di rischio più importante per le malattie cardiovascolari.
Come abbiamo visto, diversi studi epidemiologici hanno associato la sindrome metabolica nella prole adulta alle carenze nutrizionali materne in gravidanza (Hales e Barker, 1992;
Hanson e Gluckman, 2005), ma anche all’obesità e al diabete materno (Wu e Suzuki, 2006; Hanson e Gluckman, 2008; Lukaszewski et al., 2013), oltre che allo stress, causato, ad esempio,
da eventi avversi nel corso della gestazione (Fisher et al., 2012).

Inoltre, anche le consuetudini alimentari e voluttuarie paterne, quali fumo, masticazione del betel ed eccesso di apporto calorico nella dieta, sono risultate determinanti
nell’incrementare il rischio di sindrome metabolica nella prole (Pembrey et al., 2006; Chen e Boucher, 2006), così come le abitudini alimentari dei nonni nei confronti dei nipoti (Pembrey
et al., 2006; Kaati et al., 2007). Ricerche effettuate sui ratti hanno associato il consumo materno in gravidanza di una dieta ricca di grassi o lo stress materno pre-natale allo sviluppo di un fenotipo obeso nella prole (Tamashiro et al., 2009; Tamashiro e Moran, 2010); in particolare, i figli di madri alimentate
con tale dieta sono nati con un peso superiore alla media e sono diventati obesi, sviluppando anche una ridotta tolleranza al glucosio, in seguito allo svezzamento a 21 giorni di vita (Tamashiro et al., 2009).
L’ipotesi di un’eziopatogenesi epigenetica del diabete di tipo 2 ha iniziato ad avere la prime conferme quando, nel 2005, uno studio ha assegnato alle cause epigenetiche un indice
di rilevanza tra i più alti (Jonathan et al., 2005), prendendo in considerazione il livello ematico di omocisteina, la dieta povera in composti solforati, che obbliga la sintesi della cisteina dalla metionina, ed i polimorfismi a bassa efficienza dell’enzima Metilene-tetraidrofolato reduttasi.

Come ho già avuto modo di accennare, è stata dimostrata la presenza di ipermetilazione del DNA nelle isole pancreatiche delle sequenze associate al co-attivatore trascrizionale alfa dei
recettori dei proliferatori di perossisomi gamma (PPARgamma) (Puigserver e Spiegelman, 2003), osservazione che fa quindi presupporre che l’espressione dei co-attivatori trascrizionali
dei PPAR, correlando positivamente con la secrezione di glucosio stimolata dall’insulina nelle isole pancreatiche, potrebbe regolare la secrezione di insulina attraverso un meccanismo
epigenetico (Kaminsky et al., 2006; Junien et al., 2007; Jiang et al., 2008; Ling et al., 2008).
Inoltre, è stata descritta una zona di ipometilazione sul cromosoma 6 che comprende due geni sottoposti ad imprinting (PLAGLI e HYMAI), oltre a sei anomalie cromosomiche nei
neonati affetti da TND (Diabete transitorio neonatale) (Mackay et al., 2008), una rara forma di diabete che si manifesta nelle prime sei settimane di vita nei neonati con ritardo nella crescita;
sebbene la terapia insulinica risolva la patologia in circa tre mesi di trattamento, la maggior parte di questi pazienti sviluppa il diabete di tipo 2 nel corso della vita (Temple e
Shield, 2002).
E’ importante considerare anche il fatto che, con il progredire della malattia diabetica, aumenta l’infiammazione a carico dell’apparato vascolare; alcune ricerche hanno evidenziato
modificazioni epigenetiche di geni preposti all’attivazione dei processi infiammatori, in particolare di un fattore di trascrizione nucleare (NF-kB) che agirebbe attraverso
l’iperacetilazione degli istoni di alcuni geni, tra cui quelli che regolano l’espressione del Tumor Necrosis Factor alfa (TNF alfa) e dell’Interleuchina 6 (IL-6) (Gerstein et al., 2008). Tra l’altro,
il controllo della glicemia per 3-5 anni non riduce il rischio di complicanze vascolari nei pazienti diabetici, e questo porta a ritenere che l’alterazione epigenetica persista per almeno 5
anni (Patel et al., 2008).
Infine, è stata osservata un’attività transitoria di metilasi e demetilasi istoniche, in grado di indurre variazioni epigenetiche a carico di alcuni fattori di modulazione dell’infiammazione in
seguito ad un temporaneo incremento della glicemia; questo meccanismo potrebbe giustificare la presenza di una “memoria iperglicemica”, proposta in alcuni recenti studi
epidemiologici (Brasacchio et al., 2009).

 


Malattie neurodegenerative

Alzheimer

La malattia di Alzheimer è un disordine neurodegenerativo che ha una prevalenza dell’1,9% nella popolazione generale, che sale al 13% dopo i 65 anni di età, rappresentando, quindi, la
principale causa di demenza nell’adulto; da un punto di vista clinico è caratterizzata da perdita di memoria, alterazioni delle funzioni intellettive e deterioramento delle capacità cognitive; dal
punto di vista istopatologico sono state rilevate placche senili extracellulari costituite da agglomerati di proteina beta-amiloide insolubile e grovigli neurofibrillari intracellulari
costituiti da proteina Tau iperfosforilata, con conseguente atrofia e perdita neuronale. Per la forma familiare ad esordio precoce, che rappresenta il 5-15% dei casi, sono stati individuati
alcuni geni causativi che risultano mutati (APP, 21q21.2; PSEN1, 14q24.3;PSEN2, 1q31-42); per la forma sporadica ad esordio tardivo, che rappresenta la maggioranza
dei casi, sono stati individuati alleli di suscettibilità (ApoE, A2M, LRP1 ed altri) (Neri e Genuardi, 2010); ci sono, però, anche diverse evidenze che hanno dimostrato il
coinvolgimento di modificazioni epigenetiche nella malattia di Alzheimer.
In vivo e in vitro (nei topi e in colture di cellule neuronali), infatti, è stato dimostrato che la restrizione di acido Folico e vitamina B12 nella dieta è in grado di indurre la demetilazione del gene della Presenilina 1 (PSEN1), con conseguente aumento di agglomerati di proteina beta-amiloide (Fuso et al., 2008). Attraverso l’analisi di sangue e cervello di pazienti affetti da

Alzheimer sono state osservate anomalie nella metilazione dei geni collegati alla produzione e al deposito delle placche amiloidi (PSEN1 e ApoE) (Wang et al., 2008) e una marcata riduzione
della metilazione del DNA è stata osservata durante l’analisi post-mortem di cervelli umani (Mastroeni et al., 2010); risultati interessanti sono pervenuti anche dall’analisi della
metilazione nella corteccia frontale di gemelli monozigoti discordanti per la malattia di Alzheimer (Mastroeni et al., 2009), dove è stata riscontrata ipometilazione esclusivamente a
carico del gemello affetto. Ancora più recente è l’osservazione di un aumento progressivo della metilazione all’avanzare della malattia a carico del gene DUSP22 a livello ippocampale,
che regola l’espressione della proteina Tau, che ha fatto ipotizzare una correlazione tra l’accumulo di questa proteina e l’inattivazione epigenetica del gene DUSP22 (Sanchez-Mut et
al., 2014).
Inoltre, per quanto riguarda la programmazione epigenetica embriofetale, è stato dimostrato che l’esposizione di scimmie in gravidanza al piombo ha provocato modificazioni
epigenetiche a carico dei geni APP e PSEN1, con conseguente aumento della formazione di placche amiloidi in età adulta nella progenie (Wu et al., 2008).

 


Disturbi del neurosviluppo

Schizofrenia

La schizofrenia è un disordine del neurosviluppo che ha un’incidenza dello 0.5-1% sulla popolazione e una prevalenza nel sesso maschile (McGrath et al., 2004); dal punto di vista clinico è caratterizzata da sintomi positivi, quali i deliri e le allucinazioni, e da sintomi negativi, quali l’affettività appiattita o inappropriata, la catatonia, l’abulia, l’alogia e
l’anedonia. Nell’eziopatogenesi della schizofrenia sono certamente implicati fattori genetici (Kendler et al., 1996), ma questi non riescono a spiegare completamente la patologia; è stato
osservato che i fattori di rischio ambientali rivestono un ruolo altrettanto importante. Ad esempio, è stata osservata un’incidenza maggiore di psicosi tra i migranti norvegesi negli Stati
Uniti già dagli anni ’30 del XX secolo (Ödegaard, 1932) e questa osservazione è stata confermata in Inghilterra (Coid et al., 2008) e approfondita con una metanalisi in contesti più
ampi (Cantor-Graee e Selten, 2005). Certamente l’immigrazione rappresenta un’esperienza altamente traumatica e stressante, in grado di indurre difficoltà di integrazione sociale che
possono evolvere in stati sociopatici, e il già citato studio di Meaney condotto sui ratti ha dato una possibile spiegazione in chiave epigenetica a questo fenomeno (Meaney, 2001),
dimostrando il coinvolgimento della metilazione del DNA e dell’acetilazione istonica nella modulazione della risposta emotiva alle condizioni di stress (Meaney e Szyf, 2005).

Successivamente alcuni studi hanno correlato il basso livello socio-economico e il contesto ambientale urbano a carenze nutrizionali nelle molecole donatrici di metili (Picker e Coyle,
2005); l’incidenza della schizofrenia, dunque, sarebbe riconducibile ad un basso livello ematico di folati (Muskiet e Kemperman, 2006) o a polimorfismi correlati al loro metabolismo
(Abdolmaleky et al., 2006). I soggetti omozigoti per una comune variante ipoattiva della Metilene-tetraidrofolato reduttasi hanno un incremento del rischio di schizofrenia superiore
rispetto alla popolazione non portatrice di tale polimorfismo, pari a circa una volta e mezzo (Muntjewerff et al., 2006); i promotori dei geni che esprimono la Catecol-metiltransferasi e la
Glutammato-decarbossilasi, enzimi importanti per il catabolismo di dopamina, adrenalina e noradrenalina, sono spesso ipometilati nei soggetti schizofrenici o affetti da sindrome
depressiva bipolare (Abdolmaleky et al., 2006).
Inoltre, è stata rilevata una sotto regolazione e un’ipermetilazione della relina nei neuroni dei soggetti schizofrenici (Grayson et al., 2005; Grayson et al., 2006), presumibilmente a causa
dell’iperattività dell’enzima DNA-metiltransferasi (Tremolizzo et al., 2002), che è risultato sovraespresso negli interneuroni corticali (Veldic et al., 2005). La relina è una glicoproteina
presente principalmente nel cervello, che ha la funzione di controllare la migrazione e il posizionamento delle cellule nervose staminali durante l’embriogenesi e nelle prime fasi post-natali, mentre nel cervello adulto regola la dislocazione dei neuroni, ed è importante nei processi di memoria attraverso la modulazione della plasticità sinaptica e la
stimolazione della crescita dendritica (Niu et al., 2004).
Tra i fattori di rischio ambientali sono state individuate le infezioni virali della madre durante la gestazione, lo stress materno, complicazioni ostetriche e ipossia del feto al momento
del parto (Schmitt et al., 2014).

Dal momento che la schizofrenia risulta essere più comune nel sesso maschile, è stato ipotizzato che il cervello del feto maschio possa essere più sensibile a certi fattori di stress pre-
natale e a perturbazioni neuroendocrine rispetto alle femmine (Goldstein et al., 2002); a conferma di questa ipotesi i risultati di uno studio danese effettuato su 1,38 milioni di nascite
dal 1973 al 1995 hanno mostrato che l’insorgenza della schizofrenia era aumentata dal 2005 nei figli di madri che avevano subito un grave lutto durante il primo trimestre di gravidanza e
che la patologia si era sviluppata maggiormente nei maschi (n=4287) rispetto alle femmine (n=3044); inoltre, è stato osservato che l’esposizione allo stress del lutto nel secondo e nel terzo
trimestre della gravidanza non portava ad un aumento significativo del rischio di schizofrenia, suggerendo che il primo trimestre possa essere un periodo particolarmente sensibile agli
effetti della programmazione pre-natale dello stress grave acuto, soprattutto per il sesso maschile (Khashan et al., 2008). Anche in un ampio studio di coorte svedese l’aumento del
rischio di schizofrenia e disturbo bipolare nella prole è stato associato al lutto di un parente di primo grado subito da madri poco prima del concepimento, durante la gravidanza o
nel primo periodo post-natale, ma non sono state osservate differenze tra i sessi e non è stata circostanziata con precisione l’età gestazionale (Class et al., 2014).
In un altro studio è stato osservato che i figli che avevano perso il padre quando erano in utero avevano una maggior probabilità di sviluppare i sintomi della schizofrenia all’età di 15
anni, rispetto ai figli che avevano perso il padre nel loro primo anno di vita (Huttunen e Niskanen, 1978). In un’ampia coorte in Finlandia le gravidanze indesiderate sono state
associate ad un aumento pari al doppio del rischio di schizofrenia rispetto a gravidanze cercate (Myhrman et al., 1996). Lo stress o comportamenti di salute nocivi come il fumo in gravidanza
hanno aumentato il rischio di psicosi in una coorte di 963 adolescenti di età compresa tra 15 e 20 anni (Spauwen et al., 2004). Molti altri studi epidemiologici hanno dimostrato la correlazione tra ipossia fetale (Cannon et al., 2000; Zornberg et al., 2000; Zornberg et al., 2000), infezioni materne con aumento dei
livelli di IgG e IgM nel siero al momento del parto (Buka et al., 2001), esposizione materna a influenza o a toxoplasmosi (Brown et al., 2009) o a malnutrizione (Susser et al., 1996; Susser
e Clair., 2008) e aumento del rischio di sviluppo nella prole di psicosi, in particolare di schizofrenia.

Una lieve o moderata infezione materna è stata associata con un aumento dell’infiammazione placentare e con le modificazioni nel sistema immunitario del feto, che,
insieme ad una condizione di stress post-natale e/o all’esposizione ad infezioni, sarebbe più soggetto al rischio di insorgenza di schizofrenia (Bilbo e Schwarz, 2009).
Altri studi, invece, non hanno trovato una correlazione tra infezioni e/o stress e schizofrenia (Susser et al., 1994; Selten et al., 1999; Selten et al., 2003); inoltre, molti studi si basano sulla metodologia retrospettiva e utilizzano concetti diversi di stress, rendendo, quindi, difficile l’interpretazione dei risultati (Daskalakis et al., 2013).
Le osservazioni epidemiologiche hanno spinto i ricercatori verso lo studio di modelli animali con l’obiettivo di chiarirne i meccanismi.
Deficit cognitivi simili a quelli osservati nella schizofrenia sono stati rilevati in roditori sottoposti a stress materno (Koenig et al., 2005; Meyer e Feldon, 2010); in particolare, una
dieta povera di proteine e di vitamina D nel periodo che precede il concepimento e durante la gravidanza è stata associata con una diminuzione del controllo attenzionale
dell’apprendimento selettivo, con un aumento dell’iperattività indotta dalle novità e anche con un aumento della sensibilità dei recettori NMDA e dei recettori D2, ma queste osservazioni
non sono ancora state indagate nell’uomo. In un altro studio condotto sui topi è stato osservato che la prole di madri sottoposte a stress in gravidanza è nata pre-termine e con un peso inferiore
rispetto ai topi di controllo, ed ha mostrato in seguito anomalie comportamentali, quali iperattività, deficit nell’interazione sociale e paura di condizionamento, che sono stati
invertiti dal trattamento con Clozapina (Matrisciano et al., 2013); in questi animali sono state osservate modificazioni epigenetiche a livello degli interneuroni GABAergici. Inoltre, è stato
osservato che lo stress prenatale è in grado di indurre nella prole adulta un aumento dell’espressione dei recettori serotoninergici 5-HT2A e una diminuzione dei recettori metabotropici del glutammato, che sono alcuni dei target del trattamento farmacologico della schizofrenia (Halloway et al., 2013).

E’ importante sottolineare che nei modelli animali studiati le modificazioni comportamentali e i deficit cognitivi simili a quelli dei pazienti schizofrenici sono stati
osservati solo in età post-puberale e questo rafforza l’ipotesi che la programmazione fetale indotta dallo stress materno porti a rispondere in modo anomalo ai cambiamenti
neuroendocrini che si verificano durante e dopo la pubertà, che è un periodo dello sviluppo in cui si riscontra un aumento della richiesta di energia da parte dell’organismo per sostenere
l’aumentata produzione ormonale e la maturazione del cervello (Kim et al., 2015).

 


Disturbi dello spettro autistico (ASD)

I disturbi dello spettro autistico (ASD) colpiscono l’1-2% della popolazione e hanno una prevalenza nel sesso maschile con un rapporto di 4:1 rispetto al sesso femminile (Baron- Cohenet al., 2009). Dal punto di vista clinico sono caratterizzati da compromissione più o meno marcata dei comportamenti non verbali, mancanza di reciprocità sociale o emotiva,
compromissione più o meno grave della comunicazione verbale, uso di un linguaggio e/o di comportamenti ripetitivi e stereotipati, che si manifestano entro i 3 anni di età.
Come per la schizofrenia, il gene della relina è risultato sottoespresso anche nei soggetti affetti da disturbi dello spettro autistico (Fatemi et al., 2002; Fatemi et al., 2005). I bambini
autistici hanno un basso rapporto plasmatico delle molecole donatrici di metili, osservazione che potrebbe giustificare un’alterazione nella capacità di metilare il DNA (Gaylor e
Neubrander, 2004); inoltre, l’esposizione prenatale all’acido valproico, noto inibitore dell’Istone-deacetilasi, predispone all’insorgenza dell’autismo (Christianson e Chesler, 1994).
Circa il 5% dei pazienti autistici presenta una duplicazione della regione sottoposta ad imprinting del cromosoma 15, nella quale è presente il gene UBE3A, che esprime la
Ubiquitina-ligasi al recettore E3A (Cook et al., 1988).

Per quanto riguarda la programmazione pre-natale di questi disturbi, è stato osservato che risposte infiammatorie della madre nel corso della gravidanza sono in grado di influenzare lo
sviluppo del cervello del feto e dopo la nascita (Depino, 2013); l’esposizione della madre ad infezioni virali, infatti, ha dimostrato di aumentare il rischio di sviluppare ASD in diversi studi (Ciaranello e Ciaranello , 1995; Singh e Jensen, 2003; Atladottir et al., 2010), anche se non in tutti (Zerbo et al., 2013). Non sono stati trovati specifici agenti infettivi responsabili
dell’aumento del rischio, per cui i ricercatori ritengono che questa programmazione fetale sia dovuta all’infiammazione materna e placentare che consegue alle infezioni, che porterebbe poi
a modificazioni nella risposta immunitaria fetale (Atladottir et al., 2010) e i modelli animali sono coerenti con questa ipotesi (Crawley, 2007; Malkova et al., 2012; Depino, 2013). A questo
proposito le osservazioni sull’uomo suggeriscono che le infezioni materne abbiano un ruolo soprattutto se contratte nel primo trimestre di gravidanza, anche se questo necessita di ulteriori
studi di conferma (Depino, 2013).
Dal momento che l’obesità è una condizione che interessa un terzo delle donne in stato di gravidanza, è stato studiato anche il suo ruolo nella programmazione pre-natale della salute
mentale (Flegal et al., 2012).

Diabete, obesità e ipertensione materna in gravidanza sono stati associati ad un aumento del rischio di insorgenza di ASD in uno studio caso-controllo (Krakowiak et al., 2012), ed è stato anche osservato che l’obesità ha aumentato il rischio in bambini di due anni di età nati pre- termine (< o = 30 settimane) (Reynolds et al., 2014). Inoltre, livelli di leptina superiori alla norma in donne obese in gravidanza sono stati associati a disfunzioni placentari e ad anomalo sviluppo cerebrale nel feto (Dodds et al., 2011; Krakowiak et al., 2012; Sullivan et al., 2014), ed è stato osservato che i bambini affetti da ASD presentano livelli plasmatici di leptina significativamente più elevati rispetto ai controlli (Ashwood et al., 2008). Una dieta ricca di
grassi può causare un aumento dell’infiammazione attraverso l’innalzamento dei livelli di alcune citochine associate ai disturbi dello spettro autistico nell’uomo (Onore et al., 2012) e ci
sono evidenze del fatto che l’aumento dei livelli di citochine nel corso della gravidanza abbia un impatto negativo sullo sviluppo neurale e sulle funzioni cognitive (Greenwood e Winocur,
2005; Sullivan et al., 2014). In particolare, una dieta ad alto contenuto di grassi può influenzare lo sviluppo neurologico aumentando i livelli di IL-6, IL-1beta, proteina C reattiva e del fattore
di necrosi tumorale (TNF) (Das, 2001) e sopprimendo il sistema serotoninergico (Sullivan et al., 2014). Nei ratti è stato osservato che una dieta di questo tipo è in grado di provocare
alterazioni delle funzioni cognitive attraverso modificazioni dell’espressione dei geni nell’ippocampo (Cordner et al., 2014).

Pochi studi hanno esaminato il ruolo del genere nella programmazione fetale del rischio di sviluppo di ASD; uno studio ha preso in esame 194 gemelli ed è stato rilevato che il distress
respiratorio e l’ipossia fetali portano ad un aumento del rischio nella prole maschile, mentre l’ittero è stato associato ad un aumento del rischio nella prole femminile (Froehlich-Santino et
al., 2014).
Le osservazioni effettuate sui modelli animali hanno portato ad ipotizzare che i maschi siano più soggetti a lesioni cerebrali da ipossia in quanto il testosterone sarebbe in grado di
potenziarla, mentre nelle femmine il progesterone e l’allopregnanolone sarebbero protettivi (), ma al momento non è noto se questa spiegazione possa essere ritenuta valida anche per l’uomo.
E’ stata indagata anche la relazione tra stress materno pre-natale e sviluppo di ASD, ma i risultati sono stati incoerenti; nel più grande studio ad oggi effettuato sulla popolazione è stato
osservato che solo lo stress materno nel terzo trimestre della gravidanza ha portato ad un aumento significativo del rischio di ASD nei nati tra il 1992 e il 2000 e questo effetto è risultato
essere indipendente dal sesso della prole (Class et al., 2014). Lo stress pre-natale potrebbe provocare alterazioni delle funzioni immunitarie nella prole e quindi contribuire al rischio di
insorgenza dei disturbi, ma questo non è ancora stato chiarito.

 


Sindrome da deficit di attenzione e iperattività (ADHD)

La sindrome da deficit di attenzione e iperattività (ADHD) ha una prevalenza nella popolazione del 2,5% e la maggior parte dei sintomi compaiono entro il sesto anno di età (Gaynes et al., 2014). E’ caratterizzata da estrema facilità alla distrazione, incapacità di stare fermi e spesso tendenza al comportamento aggressivo immotivato, con compromissione clinicamente significativa del funzionamento sociale e scolastico.
Diversi studi epidemiologici hanno associato l’esposizione allo stress e al fumo di sigaretta
della madre, soprattutto nel corso del primo trimestre di gravidanza, all’aumento del rischio di insorgenza di ADHD principalmente nel sesso maschile (Rodriguez e Bohlin, 2005). In
uno studio retrospettivo caso-controllo gli eventi stressanti della madre durante la gravidanza sono stati associati con ADHD in maniera statisticamente significativa in confronto ad un
fratello non affetto, ed è stata anche osservata una maggior probabilità di incidenza nel sesso maschile (Grizenko et al., 2012). Nel corso del già citato studio di coorte
danese è stata osservata anche una maggior incidenza di ADHD nei figli di madri che avevano subito un grave lutto poco prima del concepimento e nel corso della gravidanza (Class et al.,
2014). Uno studio precedente aveva osservato un aumento del 72% del rischio di diagnosi di ADHD o della possibilità di ricevere un farmaco per il trattamento del disturbo nei figli maschi
di madri che avevano subito un grave lutto (un altro figlio o il coniuge) durante la gravidanza, soprattutto se questo era avvenuto nel terzo trimestre (Li et al., 2010); inoltre, in questo stesso
studio è stato osservato che la morte di un parente meno stretto non aveva avuto effetto sul rischio di insorgenza del disturbo, a conferma del fatto che non è l’evento stressante in sé a
determinare i cambiamenti già spiegati nella regolazione dell’asse HPA, ma lo stress percepito, e quindi soggettivo, della madre, aspetto che in molti studi non viene preso in considerazione.
Questo fattore è molto importante, perché un maggiore stress percepito in risposta ad un evento o condizione è associato con una maggior attivazione dell’asse HPA e quindi della risposta
immunitaria.

Infatti, in un piccolo studio retrospettivo caso-controllo è stato osservato che le madri di bambini a cui è stato diagnosticato l’ADHD riportavano un grado di soddisfazione coniugale
e di eventi di vita positivi molto basso relativamente al periodo della gravidanza (Lee et al., 2006) e uno studio di coorte prospettico ha associato lo stato di ansia materno a 12-22
settimane di gravidanza con l’insorgenza dei sintomi di ADHD nei loro figli all’età di 8-9 anni, ma non nell’ultimo trimestre (Van den Bergh e Marcoen, 2004). Al contrario, uno studio più
ampio non ha trovato alcuna correlazione tra lo stato di ansia materna diagnosticata in
gravidanza con l’insorgenza di ADHD nei figli (Martini et al., 2010).
In generale si può affermare che tutti questi studi evidenziano la potenziale interazione tra gravità del fattore di stress materno, periodo gestazionale di esposizione e sesso della prole
nella programmazione fetale del rischio di insorgenza del disturbo.
Una ricerca condotta sui roditori utilizzando il modello dello stress cronico variabile ha dimostrato l’associazione tra induzione di infiammazione placentare e sviluppo dei sintomi di iperattività nel sesso maschile e non in quello femminile (Bronson e Bale, 2014); i ricercatori hanno anche dimostrato che il trattamento con un farmaco antinfiammatorio non steroideo
(FANS) durante l’esposizione materna allo stress ha diminuito l’espressione del marker dell’infiammazione IL-6 a livello placentare, permettendo di prevenire nei maschi l’insorgenza
del fenotipo comportamentale relativo all’ADHD.
Questi dati forniscono un ulteriore supporto all’importanza dell’infiammazione nella programmazione fetale dell’ADHD, anche se ad oggi non è ancora certo che il modello di
iperattività nei roditori possa essere adeguato per i sintomi di ADHD nell’uomo.
E’ interessante sottolineare infine, che, oltre all’infiammazione, anche l’esposizione in utero ad un aumento eccessivo di glucocorticoidi (GC) è stata collegata al successivo aumento del
rischio di sviluppo di ADHD; infatti, uno studio retrospettivo ha dimostrato che la somministrazione esogena ripetuta di GC in donne a rischio di parto pre-termine ha provocato
l’insorgenza dei sintomi di ADHD in bambini di età compresa tra 3 e 6 anni (French et al., 2004).

 


Disturbi d’ansia e dell’umore

I dati più recenti e più cospicui sugli effetti dell’ansia pre-natale sono forniti da uno studio prospettico longitudinale effettuato su un’ampia coorte di genitori e bambini (n=7944), grazie
al quale è stato osservato che l’ansia materna durante la gravidanza può indurre nei figli un aumento del rischio di insorgenza di disturbi mentali, che persistono anche in adolescenza
(O’Donnell et al., 2014); in particolare, è stato osservato che l’ansia pre-natale provoca dei cambiamenti nelle risposte al cortisolo al risveglio e nella sua regolazione diurna negli
adolescenti (O’Donnell et al., 2013).
Nei roditori sono stati rilevati comportamenti ansiosi in seguito all’esposizione in utero ad un lipopolisaccaride (LPS) che mima l’esposizione ad un agente infettivo, determinando una
disregolazione immunitaria materna (Walker et al., 2009; Walker et al., 2010); gli animali trattati con LPS hanno mostrato anche un incremento dell’attività del Sistema Nervoso
Autonomo (ANS), suggerendo che sia l’asse HPA, sia l’ANS vengano persistentemente e anomalmente colpiti dalla disregolazione immunitaria pre-natale (Sominsky et al., 2013).
Inoltre, come accennato in precedenza per i disturbi dello spettro autistico, anche una dieta materna ad alto contenuto di grassi è in grado di causare una disregolazione immunitaria e un
innalzamento dei livelli di glucocorticoidi.
Nei roditori questo tipo di dieta ha portato allo sviluppo di un fenotipo ansioso e all’aumento delle risposte di stress, come dimostrano l’aumentato numero di recettori per i GC
nell’amigdala e i cambiamenti nell’espressione dei geni che codificano per la risposta infiammatoria sia nell’ippocampo che nell’amigdala (Sasaki et al., 2013).
Dal momento che una dieta ricca di grassi può portare ad esiti differenziali (fenotipo ansioso o disordine dello sviluppo neurologico), è stato ipotizzato che in questi effetti diversi abbiano un ruolo il periodo di esposizione nel corso della gravidanza e il sesso della prole (Sullivan et
al., 2014).

Per quanto riguarda il disturbo depressivo maggiore è stato stabilito che sia la prima causa di malattia tra le donne di tutto il mondo (sito internet?), ma nonostante questo sono ancora
pochi gli studi che hanno indagato il possibile ruolo dello stress materno, dell’infiammazione o dell’esposizione ad un eccesso di glucocorticoidi in gravidanza sull’aumento del rischio di
insorgenza di depressione nella prole adulta.
Alcuni studi si sono concentrati sugli effetti della riduzione della crescita fetale ma i risultati sono stati contraddittori (Fisher et al., 2006). In una coorte di nati tra il 1959 e il 1966 (n=1101)
non è stata rilevata alcuna associazione tra ridotta crescita fetale, basso peso alla nascita e parto pre-termine e sviluppo di depressione maggiore nella prole (Vasiliadis et al., 2008); è
importante sottolineare che in questo studio non sono stati presi in considerazione fattori quali il sesso della prole, l’età della prole al momento della valutazione dello stato di depressione e
se i soggetti osservati avevano subito nel corso della loro vita un ulteriore fattore di grave stress, limitando, quindi, la possibilità per i ricercatori di stabilire un possibile collegamento tra i
fattori pre-natali e lo sviluppo della malattia da adulti. Un altro studio invece, ha esaminato i risultati tenendo in considerazione il genere, osservando che le femmine con un basso peso alla
nascita presentavano all’età di 21 anni un rischio maggiore di sviluppare la depressione rispetto ai maschi (Alati et al., 2007). Inoltre, in uno studio condotto su adolescenti di entrambi i sessi
è stato osservato che il basso peso alla nascita era predittivo del rischio di depressione solo nelle femmine che erano state esposte ad altre avversità nell’infanzia (Costello et al., 2007).
E’ stato ipotizzato che la depressione materna in gravidanza possa aumentare il rischio di insorgenza di depressione nei figli adulti attraverso il meccanismo già descritto
dell’esposizione fetale a livelli aumentati di GC, che portano ad un alterata regolazione dell’asse HPA (Goodmann e Gotlib, 1999), soprattutto in considerazione del fatto che è più
probabile che uno stress cronico in gravidanza porti ad uno sviluppo anomalo fetale dell’asse
HPA rispetto ad uno stress acuto (Weinstock, 2005) e non vi è dubbio che la depressione materna possa essere considerata un fattore di stress cronico, anche perché molte donne che ne
sono affette sono portate a non cercare o ad interrompere i trattamenti per questo disturbo durante la gravidanza.

Stanno iniziando ad emergere i risultati di alcuni studi prospettici che suggeriscono che la depressione materna sia un fattore di rischio indipendente per l’insorgenza di disturbo
depressivo maggiore nei figli adulti (Pearson et al., 2013; Betts et al., 2014); Pearson e collaboratori, ad esempio, hanno osservato che all’età di 18 anni i figli di madri depresse nel
corso della gravidanza presentavano un rischio di insorgenza del disturbo 1,28 volte più alto per ogni aumento di deviazione standard del punteggio ottenuto dalle madri ai test di controllo per depressione post-partum; inoltre, lo stesso studio ha fornito una conferma alla programmazione fetale dovuta all’esposizione a depressione materna, in quanto è stato
osservato che la presenza di disturbo depressivo maggiore nel padre durante il periodo di gravidanza della moglie non ha inciso sull’aumento del rischio nella prole.
Gli studi condotti sugli animali hanno mostrato che un moderato stress pre-natale è in grado di provocare comportamenti depressivi in roditori di entrambi i sessi attraverso la già vista
programmazione epigenetica della risposta di stress (Darnaudery e Maccari, 2008); inoltre, è stato dimostrato che la depressione materna è associata a down-regulation a livello placentare
dell’espressione dell’enzima monoammine-ossidasi A (MAO-A), che potrebbe modificare l’esposizione del feto a neurotrasmettitori quali la serotonina, che sono implicati nello sviluppo
del cervello e nella regolazione degli stati affettivi (Blakeley et al., 2013). Inoltre, è stato osservato nei ratti che lo stress pre-natale altera l’espressione del gene che codifica per il fattore
neurotrofico BDNF nell’ippocampo e nell’amigdala, attraverso l’ipermetilazione a livello dell’esone 4, con conseguente diminuzione dell’espressione genica (Boersma et al., 2014).
Ovviamente è importante considerare che, se da un lato gli studi sugli animali possono fornire indizi utili per la comprensione dei meccanismi che sottendono la programmazione
fetale, dall’altro mancano di validità di facciata, in quanto viene a mancare la complessità dell’esperienza umana emotiva e psicologica quotidiana di fronte alle condizioni di stress.

 


CONCLUSIONI

Mentre, quando era dominante il “dogma centrale della biologia molecolare” di Crick, la vita era concepita come il casuale prodotto dell’informazione genica, con il paradigma
epigenetico la vita diventa capace di retroagire sulle condizioni che l’hanno prodotta; si passa, quindi, da una visione deterministica e meccanicistica ad una complessa e sistemica: il DNA è
solo la molecola di base, un prodotto potenziale che fa parte di un network molecolare complesso contenuto nel nucleo di tutte le cellule e composto da proteine, enzimi, RNA minori
che ruotano attorno al DNA, riconfigurandolo continuamente.
In questa visione acquista un’importanza fondamentale il flusso continuo di informazioni chimico-fisiche e psichiche che arrivano all’individuo dall’ambiente fisico e sociale in cui vive
e che lo inducono a modificarsi nel tempo nella sua componente epigenetica.
La variabilità della metilazione del genoma, infatti, è funzione delle condizioni metaboliche, della dieta, degli stili di vita, dello stress, dell’età e dell’assetto genomico; ne
consegue che ogni trasformazione del fenotipo è indotta dall’ambiente, modulata epigeneticamente e condizionata geneticamente.
Inoltre, i numerosi studi epidemiologici su larga scala condotti nel corso degli anni ’90 da David Barker e collaboratori hanno portato Barker stesso all’elaborazione della teoria delle
origini embriofetali delle malattie dell’adulto, in base alla quale la carenza nutrizionale materna nel corso della gestazione, che porta ad un rallentamento della crescita del feto con basso peso
alla nascita, sarebbe in grado di programmare l’insorgenza in età adulta di cardiopatia coronarica e dei disturbi ad essa associati, quali infarto, ipertensione e diabete di tipo 2,
fornendo, come spiegazione causale, il modello del “fenotipo parsimonioso”, secondo cui il feto modificherebbe il proprio fenotipo in maniera adattiva e predittiva in risposta a stimoli
nutrizionali o ormonali provenienti dalla madre, al fine di riuscire a sopravvivere alla nascita, nel caso in cui l’ambiente continuasse ad essere sfavorevole. L’arricchimento nutrizionale dopo
la nascita, invece, causerebbe una “sprogrammazione” di queste modifiche adattive, esponendo l’individuo ad un aumento del rischio di incidenza di malattia.

Nel corso di questo lavoro ho mostrato come l’ipotesi di Barker abbia avuto nel corso degli ultimi vent’anni molteplici e importanti riscontri epidemiologici in vari Paesi del mondo e
come gli studi sperimentali, sia sull’animale che sull’uomo, siano stati in grado di fornire una spiegazione causale scientifica a tale ipotesi attraverso la scoperta dei meccanismi epigenetici
che sottendono il fenomeno.
Ne sono un esempio il “Dutch Famine Study”, che ha dimostrato che i cosiddetti “figli dell’inverno di fame” olandese a distanza di sessant’anni presentavano un’ipometilazione del
gene che controlla la sintesi di Igf2, il fattore insulino-simile che regola la crescita del feto; gli studi sugli interferenti endocrini, che hanno dimostrato come l’esposizione pre-natale ad alcuni
EDC (DDT, metossicloro, BPA, DEHP, DBP) influenzi la programmazione fetale dell’obesità dell’adulto e per le successive tre generazioni, attraverso l’ipermetilazione del gene
che codifica per il recettore nucleare PPARgamma, con conseguenti effetti obesogenici; gli studi sugli effetti di una dieta ricca di grassi e mono-saccaridi da parte della madre in gravidanza, che causa attivazione epigenetica del fattore NF-kB, con conseguente effetto pro-infiammatorio attraverso l’aumento dell’espressione di TNF alfa e di IL-6; gli studi sull’effetto dello stress subito dalla madre in gravidanza, che causa ipometilazione del gene che codifica per il co-chaperone FKBP5, un importante regolatore del legame dei glucocorticoidi al loro recettore.
Ho mostrato anche come le critiche alla teoria di Barker siano state negli anni invalidate e ritengo importante sottolineare come i risultati del citato studio sulla popolazione di
Leningrado, che soffrì la fame analogamente alla popolazione olandese nel corso dell’occupazione tedesca durante la Seconda guerra mondiale, in realtà non abbiano portato
evidenze contrarie a quelle giunte dal “Dutch Famine Study”; infatti, la mancata osservazione dell’aumento del rischio di insorgenza di malattie nella popolazione divenuta adulta può essere
letta come una conferma all’ipotesi del “fenotipo parsimonioso”, in quanto i figli nati dalle madri che avevano sofferto la fame in gravidanza a Leningrado hanno continuato a vivere in condizioni di restrizione alimentare anche in seguito nel corso della loro vita, a causa dell’avvento del Comunismo.
Al contrario, in Olanda alla fine della guerra le condizioni alimentari tornarono nella norma e questo causò la “sprogrammazione” del fenotipo della prole, che si era adattato asopravvivere in condizioni di privazione nutrizionale, provocando nel tempo l’aumento dell’insorgenza di obesità, malattie cardiovascolari, diabete di tipo 2, ipertensione e
aterosclerosi.
In particolare, la maggior parte degli studi ha dimostrato che i “periodi critici” per quanto riguarda la programmazione fetale delle sopracitate malattie sono il primo e il terzo trimestre
della gravidanza, suggerendo che essi riflettano i periodi sensibili nello sviluppo dei vari organi implicati, che si verificano in fasi diverse della crescita fetale.
Ricerche più recenti si sono concentrate, invece, sull’analisi della programmazione fetale delle malattie del neurosviluppo, quali schizofrenia, disturbi dello spettro autistico, ADHD e
disturbi d’ansia e dell’umore.
Queste hanno dimostrato che il “periodo “critico” per lo sviluppo neurologico e psichiatrico è il terzo trimestre della gravidanza, ad eccezione della schizofrenia, per la quale è stato
osservato che il “periodo critico” è rappresentato dal primo trimestre.

I risultati sono stati a volte incoerenti e quindi lontani dall’essere conclusivi, ma ci sono sempre più numerosi dati convincenti che suggeriscono che l’esposizione pre-natale alla
“disregolazione” dell’asse HPA della madre indotta da eventi di vita o condizioni stressanti, l’esposizione a livelli eccessivi di glucocorticoidi e stati di infezione/infiammazione della
madre siano in grado di produrre modificazioni epigenetiche sia a livello placentare che nel feto, programmandolo all’aumento del rischio di insorgenza nell’infanzia, in adolescenza e
nell’età adulta delle citate malattie neurologiche e psichiatriche.
Inoltre, le ricerche in questo campo hanno evidenziato l’importanza dello stress percepito, ovvero della misura in cui esso attiva l’asse HPA materno e conseguentemente la risposta
immunitaria, aspetto che è ovviamente impossibile da rilevare negli studi sugli animali.
Infine, è interessante sottolineare che sono state osservate differenze di genere nell’aumento del rischio di incidenza dei disturbi in seguito a programmazione fetale, ma ad
oggi non è ancora stato chiarito se queste siano attribuibili ad essa o ad altri fattori; hanno permesso però di evidenziare l’importanza dell’interazione tra esposizione fetale ed
esposizione nelle prime fasi della vita, i primi due anni in particolare, nella manifestazione dei sintomi di malattia in seguito, portando i ricercatori a modificare leggermente il concetto
espresso da Barker, il quale affermava che “l’utero era più importante della casa”; Kim e collaboratori hanno preferito affermare che “l’utero è importante tanto quanto la casa” (Kim et
al., 2015).

La programmazione fetale dei disturbi del neurosviluppo è oggi un’area di continua ricerca.
Questo complesso insieme di dati porta alla conclusione che, accanto alla tradizionale mutazione genica, casuale e rara, e alla selezione a livello di popolazione, deve essere
considerata una terza componente, ovvero la programmazione durante lo sviluppo pre-natale, il cosiddetto “Fetal programming”. L’ontogenesi embriofetale, infatti, è il periodo più
importante della vita sul piano biologico; nel corso dei nove mesi di gestazione il feto programma la propria biochimica in base alle informazioni che gli arrivano attraverso la madre
in maniera adattiva e predittiva, come avevano supposto Barker e Hales nel loro paradigma del “fenotipo parsimonioso”, grazie alla plasticità che caratterizza il periodo dello
sviluppo, che è massima nel corso dell’ontogenesi (“Developmental plasticity”).
Le informazioni che arrivano al feto attraverso la madre possono essere di natura alimentare, ormonale, biochimica, sociale ed emozionale; tra questi ho portato esempi nel corso di questo
lavoro relativamente alla carenza nutrizionale (deplezione di folati, vitamina B12, colina, betaina, proteine), all’eccesso nutrizionale (dieta ricca di acidi grassi e mono- saccaridi), agli
interferenti endocrini (pesticidi, benzopirene, metalli pesanti) e allo stress.
I primi stadi dello sviluppo, dunque, rappresentano un periodo cruciale per la formazione e il mantenimento delle marcature epigenetiche, che potranno persistere per tutta la vita
dell’individuo; inoltre, l’esposizione a determinate condizioni ambientali nel periodo embrionale è in grado di influenzare la suscettibilità alle malattie nel corso della generazione
successiva o di più generazioni, come hanno dimostrato, ad esempio, gli studi citati sugli interferenti endocrini.
Ne consegue che l’epigenetica può avere molteplici implicazioni: innanzi tutto può consentire di rintracciare nelle “impostazioni iniziali della vita” le radici di disordini che si
manifestano nella vita adulta; può aprire possibilità di diagnosi precoce su modificazioni cellulari epigenetiche, che possono portare a patologie quali cancro, malattie cardiovascolari,
malattie autoimmuni, disturbi del neurosviluppo ed altre; può aprire la possibilità di attuare interventi di correzione della marcatura epigenetica, sia tramite farmaci, sia tramite il
comportamento, quali alimentazione, attività fisica, gestione dello stress, ecc.
E’ ormai appurato, quindi, che non è possibile valutare il rischio di incidenza di una patologia associabile a specifiche variazioni genetiche senza considerare il contesto
ambientale che condiziona l’espressione o il silenziamento di tali varianti genetiche.
Questo rappresenta una grande sfida per il futuro della Genetica medica e dell’epidemiologia, aprendo uno scenario molto complesso e inimmaginabile fino a pochi anni fa, quando gli esiti del Progetto Genoma sembravano un punto di arrivo.Il Progetto Epigenoma Umano è iniziato ed è ancora in corso.

IL RUOLO DELLO PSICOLOGO

Da quanto esposto in questo lavoro ritengo che sia sempre più importante la messa in atto di un approccio alla cura, composta di prevenzione e terapia, che sia realmente integrato, cioè
in grado di fornire una consulenza qualificata sugli stili di vita, che come abbiamo visto sono i principali determinanti della salute, di offrire un programma di cura che lavori sia sulla
dimensione psichica che su quella biologica e di garantire un uso dei presidi terapeutici che non sia esclusivamente o preponderantemente ristretto alla farmacologia di sintesi.
Questo significa abbandonare definitivamente il modello biomedico di spiegazione delle malattie e di trattamento delle stesse, in base al quale la salute, la malattia e le caratteristiche
individuali dipendono da fattori elementari, quali geni, microrganismi o alterazioni strutturali, che la medicina può individuare e risolvere, mettendo la salute nelle mani della scienza, del
medico e, quindi, della farmacologia e della chirurgia.
Al contrario, il paradigma epigenetico e quello psiconeuroendocrinoimmunologico offrono una visione della salute e della malattia come dipendenti, in larga misura, dall’organizzazione
della vita, la quale dipende a sua volta dal tipo di organizzazione sociale e dai comportamenti di ciascun individuo. In questa visione le rappresentazioni che la società ha della salute, della
malattia e della scienza costituiscono il quadro di riferimento strutturale su cui si organizza l’individuo; conseguentemente la rappresentazione che l’individuo ha di se stesso influenza
fortemente la sua condizione di salute e di benessere, ad esempio in base al suo “senso di coerenza” (Antonovsky, 1985), al suo senso di “intrinseca adeguatezza” (Gadamer, 1994) e al
suo senso di “auto-efficacia” (Bandura, 1977).
La salute, dunque, è un attributo e una responsabilità dell’individuo, come emerge chiaramente dai tanti esempi che ho riportato nel corso di questo lavoro.
L’alimentazione, la sedentarietà, lo stress, l’inquinamento ambientale e farmacologico producono una marcatura epigenetica fin dagli esordi della vita nell’utero materno e poi nel
corso della vita adulta e in quella delle generazioni che si susseguono; aver compreso che questa marcatura è prevenibile e reversibile attraverso l’adozione di comportamenti adeguati e cure non necessariamente farmacologiche assegna una grande responsabilità non soltanto
all’individuo, ma anche a tutti gli operatori sanitari.
E’ in questa ottica che si inserisce, a mio avviso, l’importante ruolo dello psicologo, che, accanto a quello del medico, dovrebbe svolgere il compito del “prendersi cura”, fatto non solo
di prescrizione e contenimento, ma soprattutto di capacità di relazione e di informazione, fatto di motivazione e di sostegno, affinché l’individuo possa realizzare consapevolmente la propria
programmazione comportamentale verso la salute e il benessere e possa gestire al meglio le condizioni di stress, sia acute che croniche, in modo da minimizzarne gli effetti di soppressione
e/o disregolazione sul sistema immunitario.

 


 

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